Benvenuti nella gallery dedicata ai miei lavori.
Questo è il posto dedicato alla mia Arte, a tutto ciò che, in anni di lavoro, ho trovato dentro di me.

domenica 19 dicembre 2010

Nuovo Spazio

Di seguito pubblico la presentazione per il catalogo della mia mostra personale, intitolata Nuovo Spazio, scritta dal Direttore e Storico dell'arte della Soprintendenza per i Beni e Attività Culturali di Caserta e Benevento, Dott.ssa Vega de Martini.
Lesposizione è stata inaugurata il 23 marzo 2007, presso la galleria Nuvole Arte Contemporanea di Montesarchio.

Alle teogonie dell’estremo oriente appartiene Salomè, principessa di Giudea, dipinta nel 1876 da Gustave Moreau, descritta da Joris Karl Huysmans nel 1884. “La sua figura… incomprensibile agli spiriti limitati e gretti, intuita solo dai cervelli scossi, acuti, resi pressoché visionari dalla nevrosi” – nota Huysmans a proposito dell’opera di Moreau – ha “di marmo le carni, di ferro i muscoli” e “vesti sontuose e chimeriche”. Già nel 1862 Gustave Flaubert aveva dato alle stampe la sua Salammbò, di adamantino simbolismo orientalista, dove tutta la trama gira intorno alla principessa cartaginese, dedita al culto della dea Tamit, di rara ed ambigua bellezza, sorta di Slomè ante litteram, come già denuncia la sua prima apparizione nel romanzo. “I suoi capelli incipriati di sabbia violetta e raccolti a forma di torre… la facevano apparire più alta. Trecce di perle attaccate alle tempie le scendevano agli angoli della bocca… sul suo petto c’era un ammasso di pietre luminose, screziate che parevano imitare le scaglie di una murena. Le braccia, adorne di diamanti, uscivano nude dalla tunica senza maniche… l’ampio mantello di porpora scura, tagliato di un tessuto sconosciuto, si allungava dietro di lei formando ad ogni passo un’onda che la seguiva…”. Riproposta da Oscar Wilde nel 1893, Salomè non è diversa dalla lettura che ne aveva dato Moreau, anzi, se è possibile, diviene ancora più ambigua, più perversa, causa del martirio e della morte del suo amato, proprio come Salammbò. Sulla stessa linea si pone Gustav Klimt, il padre della secessione viennese nel 1909, nella sua Giuditta-Salomè oggi alla Galleria d’arte moderna di Venezia, autore che si può cogliere nelle opere del 2001 del giovane Antonio Cella, grandi pannelli in acrilico di totale verticalismo. Non può che essere Salomè la figura in sontuoso manto rosso e copricapo di foggia orientale, doppi cerchi d’argento ad ornamento delle lunghe braccia, occhi spietati senza pupille e senza sguardo, che regge con la mano destra un curioso oggetto metallico a maglie intrecciate. Uno strumento di tortura forse, simile a quello che comprime la testa del personaggio nella parte superiore del dipinto che erompe alla maniera di Munch in urlo terrificante, non si sa se di dolore o liberatorio di una violenza o di un’angoscia profonda. Non può essere che Salomè la sinuosa figura presa con lo scorcio sottinsù, mani dietro la schiena, forse legate, nuda fin sotto il pube, coperta dalle cosce ai piedi di una rigida tunica purpurea scivolante dal corpo, una tunica a disegni d’oro che sarebbero piaciuti a William Morris, con il capo inglobato in una macchina di barre metalliche curve e sottili come serpenti, fornita di museruola che impedisce qualsiasi articolazione alla voce. Astrazione simbolista e naturalismo, anzi iperrealismo, sono le caratteristiche di queste realizzazioni di Cella giocate tra l’ammirazione della sigla stilistica di Klimt, decisamente decadente ed orientalista, e la conoscenza del linguaggio dei cartoons contemporanei. Quelli fantasy certamente, di gusto favolistico e vagamente neogotico (movimento questo che sviluppatosi nel corso di tutto il secolo XIX influisce in maniera determinante sulle correnti artistiche tra fine Ottocento e inizio Novecento) ma anche quelli della serie nata, in linea con la pop art americana, nel 1963 presso la Marvel Comics, dove esiste sempre un eroe (o un’eroina) e i suoi superpoteri. Il cavaliere viola indaco di uno dei pannelli acrilici del primo periodo dell’artista è forse Matho, il barbaro innamorato di Salammbò, visto di spalle, con un poderoso fondoschiena e rude copricapo di pelliccia e lunghissimi pendenti di argento pesante lavorato, o un X-men, un supereroe, un mutante del tipo di quelli ideati dalla Marvel Comics, il prodotto comunque di una variazione genetica, di uno squilibrio patente?
Nel 2005, lasciandosi alle spalle i rutilanti pannelli del primo periodo, Cella passa alla scultura realizzando con legno e metallo composizioni in cui la figura umana, o meglio superumana, va in metamorfosi, si tramuta – da bravo mutante – in una sorta di larva deforme. Quel che non cambia è il senso di oppressione, di chiusura, di silenzio imposto: gli X-men o le X-woman hanno comunque una valenza inquietante, da replicanti. Da una grata di una finestrella realizzata in un pannello di legno grezzo viene fuori la testa deforme ed il braccio lunghissimo di un guerriero (lo si deduce dalla lancia che serra nella mano) come un animale ridotto in cattività. Le larve umane oggi – ed è la nuova fase del lavoro, tutto concettuale, dell’artista beneventano – diventano piccole, piccolissime, si scolorano fino a diventare bianche, quasi invisibili, un’ulteriore mutazione. Il fatto è che già dall’inizio, nell’universo di Cella, l’uomo, quello razionale, posto al centro del mondo e della natura dalla filosofia rinascimentale, non è presente mai e ora la terra si è trasformata in un’immensa fabbrica di scatolette, scatolette piene di uomini ben lavorati, svuotati e sistemati nel loro nuovo spazio, in fila e in pila. Larve che sopravvivono ibernate in un involucro trasparente di ridottissime dimensioni, asettico, quel che rimane dello spazio in cui – in sano equilibrio con la natura – gli esseri umani, prima dell’avvento dei supereroi, una volta abitavano, variegato, stimolante, enorme. E la storia? L’esperienza? La cultura? Perduti, sparsi per la terra in milioni di frammenti. Ma l’involucro, in cui l’uomo è inscatolato, è trasparente, costituito da membrane sottilissime che permettono un movimento osmotico. Basta un particolare, un “frammento”, e la storia, il ricordo, riemerge direttamente dallo stomaco, dal DNA. Così ricomincia il viaggio, o più propriamente il libero vagare della mente alla ricerca della propria identità, del proprio spazio. E si scopre che la notte ha lo stesso sapore da migliaia di anni, e che il grano riscaldato dal sole, respira e danza alla luce della luna. E se le nostre mani sono lisce, e i nostri piedi riposati, allora è il momento di andare, e cercare il tempo che ci ha abbandonati, che ha rinunciato ad insegnarci il valore di ciò che è andato perso, per imparare a conservarlo nelle nostre menti.
Imparare a tenere insieme i frammenti del nostro spirito, senza infrangere lo spazio altrui, ma conquistando tutto lo spazio di cui abbiamo realmente bisogno.
Non un nuovo spazio, concepito su misura per noi, ma uno spazio concepito su misura da noi… Così i frammenti recuperati tornano sotto forma di nuova esperienza, aiutandoci a scoprire che erano già in noi… Questi non ci sveleranno il loro segreto, tuttavia potrebbero riempire le scatole trasparenti nuovamente di storie, pensieri, sogni… Le piccole larve potrebbero lentamente di nuovo dilatarsi, spaccare la membrana trasparente che le imprigiona e riconquistare la dimensione umana, non più supereroica. Il grande fantoccio di legno bianco, ripiegato su se stesso, che ingombra al centro tutto lo spazio della sala, potrebbe prendere vita, diventare prima un gigante con “carni di marmo e muscoli di ferro”, uno X-men, poi un uomo vero padrone e unico signore del mondo e di se stesso.

Vega de Martini


Le opere












L'installazione

















sabato 18 dicembre 2010

Lavori prodotti dal 2000 al 2006

E' uno scenario inquietante quello che si pone di fronte alle generazioni moderne.
Sarà colpa della politica, dell'etica o della corsa alla sopravvivenza, ma l'umanità rischia di rimanere a corto di idee, nonostante la gran quantità di punti di riferimento del passato.
E' la ricerca dell'originale ad ogni costo che ci ha fatto perdere di vista l'importanza della qualità e della storia.
Eppure anche Michelangelo ha studiato i classici.
Non si diventa grandi senza la piena consapevolezza del passato.
Così le gallerie sono piene di croste che hanno l'unico pregio di essere state scelte dal calderone, perché facilmente posizionabili sul mercato.
Alla fine cosa resta all'umanità, quale esperienza artistica indimenticabile avrà fatto l'avventore, e ancora più preoccupante, per cosa ricorderà la storia il nome dell'artista?
Niente.
Bisognerebbe ricominciare daccapo, fermarsi a raccogliere i pezzi (quelli buoni) e rimetterli insieme, con lo scopo, inizialmente puramente archeologico, di far vedere alle prossime generazioni di cosa è stato capace l'uomo.
L'arte moderna non è la produzione artistica odierna, anche perché d’artistico non c’è più niente, ma è ciò che oggi ci colpisce di un'opera, nelle forme e nel concetto, così come accadeva 1000 anni fa.
L'arte è sempre stata visione del futuro, l'oggi è già esistito nelle sensibili menti degli artisti del passato.
Oggi qual è la visione del futuro?
Vuoto.

Di seguito propongo le foto di alcune opere che ho realizzato tra il 2000 e il 2006.
Per avere la mia visione del presente e del futuro, ho messo insieme i cocci, conservato l'utile e distrutto l'inutile.
Mi sono avvicinato ad un senso di purezza e integralismo difficile da far capire ad un gallerista.
Non fa niente, meglio la fame.
La ricerca si è trasferita in un ambiente onirico, unico posto in cui riconnettersi con la storia dell'uomo.
Le superfici non sono più laccate, ma arrugginite, le tinte non più uniformi ma grattate, e i materiali non più intatti ma in disfacimento.
Era lì il posto dove scavare per trovare ciò che si celava dietro la candida, asettica apparenza moderna.
Dietro la vernice a specchio c'è il ferro, e il ferro viene dalle profondità della terra, lo stesso posto da cui viene l'uomo.
Bisognava ricollegarsi con la terra, con la natura, col tempo.
Ecco nascere i miei frammenti, piccoli scrigni in cui sono conservati ricordi, esperienze, odori, colori, idee che non si vendono più.
Non si sono mai venduti, ma sono le fondamenta su cui è stata costruita la civiltà, la scienza, la cultura dell’uomo.